Questa sezione del sito è dedicata ad una delle branche più affascinanti e stimolanti dell’arte naturalistica. Una disciplina in forte ascesa negli ultimi anni che non solo è un’enorme fonte di crescita per gli artisti che la praticano, ma anche un arricchimento per la mente per le persone che ne fruiscono.
Si tratta della Paleoarte, ovvero la ricostruzione (mediante le arti figurative, generalmente) delle forme di vita estinte che un tempo popolavano il nostro pianeta.
Una paleoarte accurata e di qualità si basa su alcuni principi di esistenza di base. Eccone alcuni.
1- La paleoarte è un’interpretazione artistica di dati scientifici.
La paleoarte in un certo senso non potrebbe esistere senza la sua scienza di riferimento: la Paleontologia, la scienza che studia il passato della vita sulla terra.
Come mai esiste questo legame?
Perché la paleoarte si basa sui reperti fossili che sono stati trovati sul campo dai paleontologi.
La cosa importante da tenere a mente però è che un lavoro paleoartistico non è un lavoro di fantasia, ma si basa su studi scientifici e reperti fossili. Si potrebbe quindi dire che si tratta più di un lavoro di speculazione su ciò che è vissuto rispetto ad una interpretazione fantastica dei reperti ritrovati.
Ci possono essere lavori artistici più “conservativi”, cioè più prudenziali ed altri più speculativi, cioè che si lasciano andare a ricostruzioni più sperimentali ed audaci.
Questo concetto ci permette di passare alla seconda regola di base della paleoarte: la speculazione.
2- Ogni lavoro paleoartistico presenterà sempre un certo livello di speculazione, e quindi un determinato margine di errore.
Ogni paleoartista serio sa, infatti, che per quanto i dati siano buoni, per quanto lui sia bravo ed esperto e si sforzi di creare una ricostruzione il più possibile accurata e plausibile, il suo lavoro sarà sempre una speculazione più o meno supportata da dati.
A meno che non si trovi un esemplare talmente ben conservato da presentare la presenza di tessuti molli, tegumento e addirittura pigmentazione, il lavoro di un paleoartista sarà sempre soggetto ad errori, inaccuratezze ed imprecisioni.
Se i reperti fossili sono numerosi e ben conservati ci sarà, da parte del paleoartista, un minore livello di speculazione. Al contrario, se i reperti sono scarsi o frammentari il livello di speculazione richiesto per ricostruire l’essere vivente in questione dovrà essere maggiore.
Mano a mano che verranno trovati nuovi reperti che daranno nuove rivelazioni sull’aspetto o sullo stile di vita di una determinata specie, il lavoro del paleoartista dovrà essere corretto ed aggiornato.
Un’opera di paleoarte si può dire che è destinata a diventare obsoleta e bisognosa di revisioni.
Ma alla fine è questo il bello del progresso scientifico.
Questo fatto però non deve essere un pretesto per ignorare i dati scientifici a disposizione.
3- La paleoarte si fonda sulle sullo scambio di informazioni tra due settori diversi.
Lo scambio e la libera circolazione di informazioni sono fondamentali per questo settore. Per poter creare un’opera un paleoartista deve poter accedere a studi scientifici e deve saperli interpretare correttamente.
Parafrasando un celebre detto, ogni paleoartista non è un’isola, ma è connesso sia agli altri artisti, sia agli studiosi ed ai paleontologi.
In particolare, con questi ultimi si può stabilire un vero e proprio rapporto simbiotico. Se da una parte il paleontologo fornisce al paleoartista tutti i dati necessari per creare un lavoro accurato, il paleoartista fornisce al paleontologo un campo di sperimentazione visiva delle teorie e dei dati scientifici raccolti sul campo.
Una rappresentazione paleoartistica può infatti permettere di vedere concretamente l’aspetto di una determinata specie o il suo inserimento all’interno dell’ecosistema in cui viveva.
Il lavoro di un paleoartista è influenzato anche da quello dei suoi colleghi.
Infatti, è possibile prendere spunto dal lavoro di altri artisti per poter migliorare le proprie competenze e prendere interessanti punti di vista esterni che permettono una visione del mondo più ampia.
Ovviamente, quando dico “prendere spunto” non parlo di copiare.
Intendo dire che studiare e comprendere il lavoro altrui è lecito e spesso è spunto di crescita. Questo studio però deve essere poi reinterpretato ed assimilato per creare qualcosa di personale utilizzando il proprio impegno e la “farina del proprio sacco”.
Non solo di questo si occupa la paleoarte.
Questa disciplina ha il potere di parlare direttamente al cuore delle persone, fungendo da mezzo attraverso il quale il pubblico può interessarsi di paleontologia, scienze naturali e lo studio della vita sulla terra.
Un’opera artistica si rivolge alla parte emotiva delle persone e va a toccare determinate corde interne dell’animo che fanno provare passione, terrore, stupore e meraviglia. Un’opera artistica può portare un pubblico sempre più grande a porsi delle domande e ad interessarsi a determinati temi, a sposare delle cause e a credere in qualcosa.
Nel caso della paleoarte, quando questa è fatta bene, può anche essere portatrice di conoscenza.
In questa pagina ti farò vedere quali sono gli step che seguo per ricostruire un animale estinto.
Per farlo ti porterò nel dietro le quinte della ricostruzione di Megaloceros giganteus, detto anche Megalocero o Alce irlandese, un cervide gigante vissuto in Eurasia durante il Pleistocene.
Questa ricostruzione l’ho fatta in collaborazione con Willy Guasti, divulgatore scientifico specializzato in paleontologia, noto al grande pubblico come Zoosparkle, che mi ha fornito l’assistenza scientifica utile per la creazione dell’opera.
La ricostruzione è stata creata per un video dedicato al Megalocero, pubblicato in seguito sul canale Youtube di Willy.
Ecco qui i tre passaggi fondamentali per ricostruire un animale estinto.
FASE 1 - LO SCHELETRO
Megaloceros giganteus – Ricostruzione dello scheletro – 2020
1- Il modello dello scheletro
Se hai letto attentamente l’introduzione avrai capito che per ricostruire un animale estinto bisogna basarsi sui reperti fossili, ovvero quasi nel 99% dei casi sulle ossa. Di solito, infatti, sono le ossa di un animale che fossilizzano, i tessuti molli come muscoli, cartilagine, cheratina e strutture tegumentarie (pelle, pelo, piume, squame, scaglie, anche qui per lo più strutture cheratinose) non fossilizzano salvo alcune straordinarie eccezioni.
In linea di massima è molto difficile anche il ritrovamento di un scheletro completo. Il più delle volte i paleontologi trovano qualche osso sparso qua e là e non è raro che alcune specie, se non addirittura alcuni generi si basino sul ritrovamento di una manciata di ossa di un solo esemplare.
Il fatto è che nessuno della stragrande maggioranza dei paleoartisti ha la fortuna di possedere uno scheletro in casa ed i reperti fossili sono conservati nei musei e non è sempre facile potervi accedere.
Inoltre come abbiamo detto, spesso si dispone di qualche osso sparso, troppo poco per avere una completa idea dell’animale nella sua totalità.
Ci vuole un modello dello scheletro completo.
Quindi come si fa in questo caso? Come si fa a recuperare uno scheletro da cui poter partire?
Ci sono due tipi di soluzione in base al tempo ed alle competenze che si hanno.
La prima via è la più difficile e anche la più dispendiosa dal punto di vista del tempo: crearsi la propria ricostruzione scheletrica.
Questo tipo di attività è ovviamente la più difficile perché bisogna procurarsi tutte le reference fossili per ricostruire graficamente il modello scheletrico.
Oltre a questo è molto complessa perché bisogna avere una conoscenza davvero approfondita sull’anatomia di ogni tipo di vertebrati; delle competenze che non sono impossibili da avere, ma che richiedono tantissimo tempo e studio per essere acquisite.
Oltre a ciò, questo tipo di attività richiede un considerevole impiego di tempo ed energia che spesso non si possiede. Nella maggior parte dei casi quando si lavora su commissione i tempi sono stretti.
Per questo c’è la soluzione numero due: utilizzare una ricostruzione scheletrica già fatta.
Ebbene sì, esistono delle ricostruzioni scheletriche di un gran numero di specie estinte, già pronte e facilmente reperibili sul web.
Chi le ha create? Per lo più degli studiosi, paleontologi e paleoartisti specializzati nelle ricostruzioni scheletriche (skeletals).
Molte di queste sono messe a disposizione del grande pubblico dagli autori stessi sul loro siti ufficiali.
Grazie al lavoro eccellente di professionisti italiani e stranieri come Marco Auditore, Scott Hartman, Mauricio Anton (tra i massimi esperti mondiale per i felidi estinti) per citarne solo alcuni, ricostruire una specie estinta è un compito molto più semplice.
Di solito più una specie è famosa e studiata più è facile che ci sia una ricostruzione scheletrica completa ed affidabile.
Se si deve ricostruire una specie un po’ meno conosciuta per cui non sono presenti delle ricostruzioni scheletriche (evenienza rara, ma comunque possibile) bisogna controllare se esistono skeletals di specie imparentate con quella che dobbiamo ricostruire e riempire il resto delle informazioni mancanti andando a studiare la letteratura scientifica in circolazione.
2 - I reperti fossili di Megaloceros
Per ricostruire Megaloceros non ho avuto fortunatamente nessuno di questi problemi.
Megaloceros giganteus, è una specie molto particolare, un’eccezione più unica che rara si potrebbe dire.
Innanzitutto è una specie che si è estinta da poco, i resti più recenti di questo cervide risalgono infatti a 7.700 anni fa (potrebbe sembrare tanto, ma geologicamente parlando si tratta davvero dell’altro ieri).
Essendosi estinta da poco, i resti fossili presenti sono davvero molto abbondanti e tendenzialmente ben conservati.
Quindi, non solo è molto facile ottenere delle reference scheletriche accurate e complete, ma sono presenti anche una grande quantità di reference fotografiche degli scheletri contenuti nei musei di tutto il mondo.
Altra condizione favorevole, è che si tratta di una creatura molto studiata, quindi come per il caso precedente è presente una grande quantità di materiale grafico ed una fornita ed abbondante letteratura.
Oltre a questo c’è anche da dire che, sebbene Megaloceros sia estinto, sono ancora esistenti i suoi parenti più prossimi: i daini e, più in generale, i cervidi. Questo dà la possibilità ad un paleoartista di studiare lo stile di vita e l’anatomia delle specie esistenti che sono imparentate con lui ed ottenere così delle importanti informazioni sia sul suo aspetto, che sul suo stile di vita.
Molto diverso, infatti, è ricostruire un animale come Spinosaurus per esempio: un dinosauro non aviano che, pur essendo molto famoso e studiato, non ha un corrispondente ecologico odierno.
Non esiste infatti ad oggi un animale che abbia il suo stesso stile di vita, dimensioni, piano corporeo e ruolo ecologico. Questo vuol dire che il lavoro speculativo riguardo il suo stile di vita potenziale deve essere maggiore.
Questo non accade con Megaloceros. Ci sono infatti molti animali esistenti che non solo sono imparentati con lui ma che vivono in luoghi molto simili a quelli in cui viveva e ricoprono nicchie ecologiche molto simili.
Ma questo lo vedremo più avanti.
Per Megaloceros, dicevo sono stato piuttosto fortunato, questo mi ha permesso di potermi creare la mia personale ricostruzione scheletrica, consultando la letteratura scientifica, confrontando le reference fotografiche dei reperti museali ed alcuni skeletals accurati.
La ricostruzione scheletrica però non è tutto, è solo il punto di partenza.
Ok, adesso abbiamo lo scheletro con cui cominciare.
Ma lo scheletro è utile per essere usato come modello su cui costruire la struttura dell’animale.
A meno che non si tratti di uno skeletal, la ricostruzione paleoartistica non può dirsi completa senza l’aggiunta dei tessuti molli.
Una volta ottenuto lo scheletro, quindi dobbiamo studiarlo e fissare dei punti di criticità. Cosa intendo con questo termine?
I “punti di criticità” sono delle zone dello scheletro importanti per la ricostruzione dei tessuti molli. Il loro obiettivo è sollevare dei dubbi riguardo all’aspetto di alcune parti del corpo, così da sapere cosa andare a studiare a livello di reference e nella letteratura e da focalizzare l’attenzione su determinati punti chiave.
Nell’immagine qui a lato puoi vedere alcuni di questi punti focali importanti per la ricostruzione segnati attorno allo scheletro.
FASE 2 - I TESSUTI MOLLI
Megaloceros giganteus – Ricostruzione dei tessuti molli – Quadro delle reference
Le reference che ho usato per Megaloceros:
1- Renna (Rangifer tarandus) – pattern facciale
2- Daino (Dama dama) forma triangolare della testa – Pattern facciale della fase scura del daino
3- Daino (Dama dama) – Pomo d’Adamo accentuato, specie nei maschi
4- Renna (Rangifer tarandus) – Giogaia di pelo
5- Alce (Alces alces) – Enormi zoccoli adatti ai terreni umidi ed innevati – pattern cromatico delle zampe
6- Daino (Dama dama) – “Pennello penico”, ciuffo di peli presente sul pene
7a- Megaloceros giganteus, reperti fossili museali – Palchi
7b- Megaloceros giganteus, pittura rupestre, Grotta di Lascaux – Palchi
8- Megaloceros giganteus, pittura rupestre, Grotta di Chauvet – Gobba sulle spalle con ciuffo di pelo
9a- Megaloceros giganteus, pittura rupestre, Grotta di Cougnac – Gobba scura, strie che collegano la gobba con il petto e con la zona dell’inguine, stria sulla gola in corrispondenza del “pomo d’Adamo”
9b- Renna (Rangifer tarandus) – pattern cromatico del corpo
10- Daino (Dama dama) – “Specchio anale” pattern caratteristico del posteriore dei daini, utilizzato nella comunicazione specifica ed intraspecifica.
Cosa si intende con tessuti molli?
Tendenzialmente tutti quei tessuti superficiali che non fossilizzano, sia perché sono più delicati delle ossa, sia perché sono più esposti alla corruzione delle intemperie ed al lavoro degli organismi e degli animali saprofagi che, consumandole, ne impediscono la fossilizzazione.
Sono quindi considerati “tessuti molli”:
- Carne (muscoli, organi interni)
- Tendini
- Strutture cheratinose (zoccoli, becchi, artigli, rivestimenti coreni)
- Strutture tegumentarie (peli, piume, squame, scaglie, pelle)
Anche i pigmenti spesso sono considerati “tessuti molli” anche se non lo sono propriamente. I pigmenti, infatti, non sono tessuti di per sé, ma sono contenuti nel tegumento (pelle, piume, pelo e così via). Essendo il tegumento molto difficile che fossilizzi, anche i pigmenti sono un ritrovamento molto raro.
Come si ricostruiscono i tessuti molli?
La risposta a questa domanda potrebbe essere molto lunga e complessa, per questo cercherò di riassumerla in tre punti chiave da tener presente quando si ricreano dei tessuti molli di un animale estinto.
1- Attenzione allo scheletro
Lo scheletro è, come ce lo si poteva aspettare, l’aspetto da tenere più in considerazione per la ricostruzione dei tessuti molli.
è lo scheletro la maggiore delle reference su cui va costruito l’animale. è lo scheletro che ci fornisce le proporzioni principali (a volte stimate) ed i principali volumi. Ed è lo scheletro che ci suggerisce la disposizione dei tessuti molli interni (muscoli, tendini ed organi interni)
Proprio a questo servivano i “punti di criticità” menzionati nel precedente paragrafo.
Facciamo un esempio.
Come possiamo notare dal suo scheletro, il Megalocero possedeva delle scapole piuttosto ampie. Questo si traduce con delle spalle piuttosto massicce e muscolose. Lo stesso vale per le vertebre cervicali massicce, alle quali erano attaccati dei possenti muscoli del collo.
Tutto questo ha perfettamente senso visto che i maschi di questa specie dovevano sorreggere oltre ad una testa piuttosto robusta, un palco colossale, che raggiungeva una volta sviluppato un peso massimo di 45 kg.
Non a caso le scapole e le vertebre cervicali erano segnate tra i “punti di criticità” su cui focalizzarsi durante la fase di ricostruzione dei tessuti molli.
Non sempre però lo scheletro basta per avere un’idea precisa di alcuni tipi di tessuti molli come il tegumento o i pigmenti. In quel caso come si fa?
La risposta sta nel secondo punto.
2- Guarda i parenti stretti
Altre importanti informazioni per quanto riguarda la ricostruzione dei tessuti molli è l’osservazione di specie che sono strettamente imparentate con il nostro soggetto, soprattutto come nel caso di Megaloceros le specie imparentate sono ancora vive e vegete.
Con questo non intendo “copiare e incollare delle caratteristiche di animali viventi a caso” e metterle nella nostra ricostruzione solo perché le riteniamo “carine”.
Ogni caratteristica che prendiamo in prestito da una specie vivente deve avere, all’interno della nostra speculazione, una sua funzionalità coerente con l’ambiente e lo stile di vita del soggetto che vogliamo ricostruire.
Oltre alle specie imparentate con il nostro soggetto bisognerebbe osservare attentamente quelle specie che hanno dimensioni simili e che possibilmente vivono in ambienti simili a quelli in cui viveva la specie che vogliamo ricostruire, è possibile che occupando una nicchia ecologica simile ed avendo dimensioni simili probabilmente presentino dei pattern e delle colorazioni simili a quelle del nostro soggetto.
Nel caso di Megaloceros non solo disponevo come reference dei suoi parenti più stretti ancora viventi (i daini), ma ho potuto osservare degli animali imparentati con lui che vivono in degli ambienti simili a quelli che millenni orsono ospitavano Megaloceros (i grandi cervidi dell’emisfero boreale: alce, renne di foresta, wapiti)
Per ricostruire questo cervide gigante ho attinto da tutte queste fonti.
A volte però, come per i grandi dinosauri non aviani, non disponiamo di parenti stretti ancora vivi (a parte gli uccelli) e di sicuro non esistono più sul nostro pianeta animali delle stesse dimensioni che occupano nicchie ecologiche simili.
In quel caso come si fa a ricostruirne degli elementi che difficilmente fossilizzano come il tegumento, i suoi pigmenti ed i potenziali pattern?
La risposta sta nell’ambiente.
3- Studia attentamente l’ambiente
Come ho specificato prima, lo scheletro è molto utile per tessuti molli come i muscoli o i tendini, i parenti stretti o gli animali che occupano una nicchia ecologica analoga ci possono venire in soccorso con il tegumento o la pigmentazione, ma a volte questo tipo di parallelismi sono difficili da tracciare.
Che fare dunque?
Bisogna ricercare le risposte nell’ambiente.
Ogni essere vivente è soggetto a delle regole ambientali. L’ambiente in cui un animale vive ed il tipo di stile di vita che conduce sono due importanti indicatori da tenere conto per ricostruirne l’aspetto.
Questo concetto l’ho già accennato nel paragrafo precedente, ma in questo lo approfondirò: a volte guardare i parenti stretti (quando ancora viventi) di una determinata specie per determinarne l’aspetto esteriore (tegumento, pigmenti), può essere fuorviante. Spesso è l’ambiente in cui la specie che vogliamo ricostruire viveva e il possibile stile di vita che conduceva che è più indicativo per quanto riguarda la ricostruzione del tegumento e dei pattern cromatici. Questa regola vale in molti casi per i mammiferi. Nei rettili e negli uccelli ci sono invece molte eccezioni a questa regola.
Facciamo qualche esempio.
Elefanti e rinoceronti presentano un tegumento ed un pigmento piuttosto simile: hanno entrambi una spessa e grinzosa pelle grigiastra.
Questo perché sono strettamente imparentati? No i rinoceronti sono perissodattili e gli elefanti dei proboscidati. I rinoceronti sono imparentati con cavalli e tapiri ed i parenti più stretti degli elefanti sono procavie, lamantini ed oritteropi, che però non sono proboscidati ma Afroteri (sul nostro pianeta non esistono altri proboscidati). Il motivo di questa somiglianza è dovuto dal fatto che hanno dimensioni simili, vivono in ambienti simili ed hanno una caratteristica simile: una vista scarsa.
In questo caso avere un pattern cromatico non è un vantaggio ma è perfettamente inutile, ecco perché l’evoluzione ha scelto per loro uno spento colore sui toni del grigio.
Passando ai cervidi, il capriolo ed il cervo rosso hanno un pattern cromatico abbastanza simile: un mantello di un uniforme color bruno rossastro.
Eppure non sono strettamente imparentati tra loro. I cervi rossi sono più imparentati con gli wapiti americani ed i caprioli sono più imparentati con le renne e con gli alci.
Mentre le renne presentano un pattern cromatico piuttosto particolare, wapiti ed alci hanno un pattern abbastanza simile. Entrambi infatti hanno arti e pancia scuri che contrasta con una schiena e delle spalle più chiare. L’unica cosa che cambia sono le tinte dei mantelli: dal marrone quasi nero al grigio rossastro per le alci e dal bruno scuro al biondo per gli wapiti.
Questo tipo di colorazione si chiama “countershading” è tipico negli animali che vivono in spazi aperti o semiaperti per mimetizzarsi.
Più l’ambiente occupato è aperto più il countershading sarà accentuato, per questo animali come cervi rossi e caprioli europei, vivendo nelle foreste, presentano mantelli uniformi con un coutershading quasi assenti, un mantello del genere è più utile per mimetizzarsi in un ambiente chiuso come una foresta appunto.
Rettili ed uccelli sono meno soggetti a questa regola. Il motivo è da ricercarsi in più fattori tra cui: cambi di livree a seconda del perido dell’anno (riproduttivo o no), utilizzo di colori sgargianti per scopi comunicativi, visione di un più ampio spettro cromatico rispetto ai mammiferi e, per gli uccelli, la capacità di volare, principale strategia di fuga da un potenziale predatore attirato dai colori brillanti.
Come ho detto prima i Daini (Dama dama) sono i parenti più stretti di Megaloceros e sono ancora in vita, eppure non li ho tenuti molto in considerazione per la mia ricostruzione, né per il tipo di pelame con cui l’ho ricoperto, né per il colore ed il pattern presente sul mantello.
Il motivo di questa scelta è dovuto dalle differenze tra i tipi di ambienti in cui questi cervidi vivono.
Mentre il daino odierno, originario della macchia mediterranea e della foresta temperata di caducifoglie, oggi vive in ambienti forestali per lo più temperato o dal clima caldo secco, Megaloceros viveva in ambienti decisamente più freddi. Il suo habitat tipico erano le foreste aperte di conifere (per lo più peccete di abeti rossi) o foreste aperte miste, torbiere, radure e brughiere. Il clima in cui viveva era solitamente freddo umido, un ambiente che oggi si può trovare in Scandinavia, in Russia o in Canada, tutti luoghi in cui vivono gli alci e le renne.
Anche le dimensioni di Megaloceros ed il tipo di nicchia ecologica occupata erano molto più coerenti con un gigante abitante di spazi semi aperti come l’alce, piuttosto che con un cervide di boscaglia di taglia media il cui mantello pomellato di macchie bianche gli consente una mimetizzazione con i chiaroscuri del sottobosco.
Ecco perché per Megaloceros mi sono basato su di una palette cromatica molto più coerente con i toni dell’alce e della renna, tipici cervidi nordici ed abitanti di spazi aperti e semi aperti.
Come ho più volte specificato però, Megaloceros non è un animale estinto “classico”, infatti possiamo essere abbastanza certi del suo aspetto.
Abbiamo forse trovato qualche esemplare mummificato ne permafrost come accade a volte con mammut, bisonti delle steppe e leoni delle caverne?
No purtroppo non ancora.
L’indizio che ci viene in aiuto nel ricostruire Megaloceros viene da una fonte indiretta: i nostri antenati.
Gli Homo sapiens che vivevano nell’Europa del Pleistocene, hanno dipinto sui muri delle caverne in cui trovavano rifugio svariate specie animali che facevano parte della fauna del periodo. Possiamo trovare bisonti, mammut, orsi leoni e iene delle caverne, cavalli selvatici, renne e anche megaloceri.
Nelle grotte di Chauvet e di Cougnac, in Francia, si possono ammirare alcune delle raffigurazioni di Megaloceros che i nostri antenati hanno eseguito millenni orsono.
Cosa abbiamo scoperto da queste raffigurazioni?
Che Megaloceros possedeva delle caratteristiche piuttosto uniche, tra queste un mantello con il countershading tipico di animali che vivono in spazi aperti e semiaperti, un bellissimo pattern che presentava striature nere sul collo, sulla gola e sui fianchi, come l’ho ricreato nella mia ricostruzione esoprattutto una “gobba” sulla spalla dotata di ciuffi di pelo ed un “pomo d’Adamo” molto accentuato nei maschi come succede ora nei daini.
Il pelo del collo inoltre era piuttosto folto e probabilmente dava origine a giogaie di pelo come nei caribù odierni.
FASE 3 - L'AMBIENTE
Megaloceros giganteus – Ricostruzione in ambiente
Ultimo aspetto ma non per importanza per completare una ricostruzione paleoartistica è l’Ambiente in cui l’animale viveva.
Raffigurare il soggetto nel contesto ambientale in cui poteva vivere, è una scelta artistica che non solo permette allo spettatore di immedesimarsi ed immergersi nella scena, percependone l’atmosfera e le emozioni, ma permette di divulgare tantissime informazioni riguardo la fauna e la flora presenti in una determinata era geologica in una determinata formazione.
Questo concetto possiamo chiamarlo “concordanza specifica”, ovvero la raffigurazione in una tavola della biocenosi (ovvero l’insieme della flora e della fauna) di un determinato ecosistema.
Prendiamo per esempio quest’opera dedicata a Megaloceros giganteus. L’ambiente raffigurato in questa tavola è un bioma che ai tempi del tardo Pleistocene era molto diffuso in Europa centrale.
Il contesto temporale in cui ho deciso di ambientare la tavola è l’oscillazione di Allerød, un periodo caldo umido che avvenne prima dell’ultimo picco glaciale del Pleistocene, circa 11.000 anni fa.
Durante questo periodo tiepido durato circa un millennio, i ghiacci si ritirarono leggermente e il rialzo delle temperature favorì la diffusione di foreste dove prima c’era il permafrost.
La scena è ambientata in una torbiera di una zona imprecisata dell’Europa centrale, tra Francia e Germania.
è mattino presto ed un grosso maschio di Megaloceros giganteus sta uscendo da un boschetto di abeti rossi dove probabilmente ha passato la notte. è una fredda mattina d’autunno e la nebbia avvolge la torbiera come una coltre d’ovatta. Assorbe tutti i suoni e perfino il gracchiare metallico di un corvo imperiale che saluta il giorno nascente involandsi da un abete vicino, sembra essere lontano chilometri.
Il cervo gigante sta perlustrando il suo territorio in cerca di cibo o di rivali con cui scontrarsi, visto che siamo nel bel mezzo della stagione degli amori, come sottolinea l’enorme palco che adorna il capo del Megalocero come una corona.
Come avrai notato leggendo questo breve passo descrittivo della scena, ho menzionato alcune delle specie animali e vegetali che ho inserito nell’opera. Sono tutte specie che sia come periodo che come distribuzione geografica potevano vivere benissimo al fianco di Megaloceros giganteus.
Megaloceros giganteus – Infografica elementi ambientali
Ecco la lista completa:
1 – Megalocero (Megaloceros giganteus) – Periodo: Pleistocene medio/Olocene superiore (445.000 – 7.700 anni fa)
2 – Corvo imperiale (Corvus corax) – Periodo: Pleistocene medio – oggi
3 – Cigni (Cygnus sp.) – Periodo: Miocene – oggi
4 – Abete rosso (Picea abies)
5 – Betulla nana (Betula nana)
IN CONCLUSIONE
Eccoci arrivati alla fine di questo approfondimento sulla paleoarte e sul mio metodo di lavorare alla ricostruzione di un animale estinto.
Spero che questo piccolo viaggio in questa branca dell’arte naturalistica sia stato interessante ed arricchente.
Se hai domande, vuoi sapere più informazioni sulla paleoarte o sul mio lavoro o magari hai dei progetti da propormi riguardanti la paleoarte, scrivimi pure compilando i campi del form qui presente, così possiamo parlare in privato delle tue idee.
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